La sfida dello Storytelling: Federico Buffa si racconta

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Storytelling: l’intervista al giornalista che definito un nuovo stile di raccontare lo sport e il mondo

Quella di Federico Buffa è una vita in bilico. Un funambolico destreggiarsi in diversi ambiti.
Agli inizi, in bilico tra ragione e sentimento: tra l’essere un avvocato (seppur esperto di contratti di lavoro nello sport) e l’essere un giornalista e commentatore sportivo. Poi, una volta trovati il coraggio e l’incoscienza necessari per seguire la sua passione, la sua vita è stata, ed è caratterizzata, dal doppio legame con basket e calcio, uno dei pochissimi casi in cui un uomo è in grado di gestire felicemente due relazioni allo stesso tempo.
A seguire, l’affermazione nei grandi palinsesti televisivi, anche questa neanche a dirlo, caratterizzata da uno stile tutto suo, un po’ giornalista un po’ confidente, un po’ statistico un po’ geloso custode di segreti: c’è tutto questo e altro ancora dietro all’opera di Federico Buffa, un narratore capace di amplificare le emozioni che normalmente si hanno di fronte ad un evento sportivo al limite della tachicardia; uno che tenendo il piede in due scarpe è abile sia nel fare gol che nel tirare da tre punti. Un uomo insomma, capace di lasciarci col fiato sospeso ogni volta che lo guardiamo restare in equilibrio sul filo del racconto.

Quando pensi che Federico Buffa abbia trovato una chiave di volta, poi lui ti stupisce e cambia, passa dalla tv al romanzo, si occupa di diversi sport… Questo cambiamento costante lo vivi come una sfida o come una necessità per tenerti allenato facendo cose nuove?

Decisamente la seconda. È tutto basato su un privilegio. Io mi domando spesso che vita sarebbe stata la mia se fosse stata basata sulle responsabilità, se per esempio avessi, come sarebbe normale aspettarsi da uno della mia età, una figlia. Se lei mi chiedesse di andare a studiare negli Stati Uniti, cosa direi? Non potrei certo dirle di no, ma per non deluderla dovrei anche compiere delle scelte di responsabilità paterna, come ad esempio decidere di non lasciare un lavoro ben retribuito per barcamenarmi in una nuova avventura. Ecco, non essendo in questa situazione, ho il privilegio (privilegio poi non so fino a che punto) di poter sondare territori inesplorati che magari nei primi tempi si rivelano percorsi faticosi, dove ho molto da imparare, dove la gente ti dice: «Ma perché non torni a fare quello che sai fare?». Io faccio così e l’ho già fatto in passato, passando dal fare l’avvocato a fare il telecronista sportivo.

 

Mentre ora, ad esempio, stai portando a teatro il tuo spettacolo “Buffa racconta le Olimpiadi del ’36”.

Sì, credo che se un essere umano se lo può permettere abbia verso se stesso il dovere, o quasi, di andare e vedere se è capace di fare dell’altro, così si evita anche l’autocompiacimento, il non provare più emozioni per quello che si fa. Ancora adesso quando sono sul palco, prima che si apra il sipario sento il battito che accelera, ed è tutta un’altra sensazione rispetto alla tv, sei quello che sei in quel momento, qualcuno di più vero ed io preferisco essere visto per chi sono.

Per cui fare il narratore, lo storyteller, è un po’ un modo per non soccombere a delle regole precise?

Sì esattamente, mi fa piacere tu abbia centrato il punto. Non sono mai stato adatto ad una categoria, specialmente perché non sono mai stato bravo o anche perché ho sempre avuto il privilegio di non doverlo essere. Anche quando facevo l’avvocato non era così faticoso per me, non dovevo andare in udienza, ero un contrattista. Analogamente io non mi sono mai sentito un giornalista, pur pagando l’INPGI (Istituto nazionale di previdenza dei giornalisti italiani).

E così con il racconto puoi evitare le regole di un giornalismo più formale.

Non credo di avere le caratteristiche di un giornalista, non credo di essere bravo a scrivere. Oltretutto quello del giornalista è un lavoro molto duro, più di quanto sembri, appare molto bello ma è faticoso. Spesso ti capita di dover scrivere in poco tempo un pezzo o un articolo che non vuoi scrivere. Io questo problema non l’ho mai avuto, nessuno mi ha mai detto: «Entro mezzanotte voglio questo pezzo». Ma non essere un giornalista per me significa anche non essere uno di quei tipi d’assalto disposti a tutto pur di avere una notizia, quindi ci sono sia lati positivi che negativi nel non essere un giornalista. Io mi sento come uno che cerca un nuovo sistema per fare quello che dovrebbe fare.

La parola storytelling ti piace oppure la trovi forzata?

Secondo me l’arte di narrare, o di fare dello storytelling, c’è sempre stata. Oggi usiamo così tanto questa parola perché vanno di moda i termini inglesi. Prima, anche se con nomi diversi, questa attività era comunque presente. Le storie si sono sempre raccontate, oggi si nota di più perché tutti lo possono fare, perché ci sono molti più mezzi per farlo; basta avere una telecamera davanti.

Secondo te, raccontare in una maniera che non sia soltanto quella del descriversi, può servire alle aziende o è più una semplice moda?

L’uno e l’altra. È sicuramente una moda, ma è anche vero che tutto il mondo della comunicazione è cambiato e così non poteva non cambiare anche la comunicazione aziendale e commerciale. Ma già quand’ero piccolo, c’era il famosissimo Carosello, cioè 4 o 5 storie in fila che alla fine cercavano di vendere qualcosa. Già allora si provava ad associare al prodotto una componente emotiva, a divertire e al contempo a vendere. Il far capire che un prodotto viene da lontano, che ha una storia, che ha radici, succedeva allora come oggi. L’aver capito che quando si compra un prodotto non si sta comprando solamente un qualcosa di tangibile, ma anche le emozioni che a questo sono connesse, non è cosa nuova, però adesso si hanno tecniche più raffinate, e più spettacolari.

Qual è la storia che avresti sempre voluto raccontare, e che magari hai anche proposto, ma cui ti sei sempre sentito rispondere: «No la facciamo un’altra volta».

Bravo! Le volte che mi hanno rimbalzato! Nel basket: Drazen Petrovic (cestista jugoslavo e poi croato, tra i migliori europei di tutti i tempi e tra i primi ad affermarsi in NBA, ndr), nel calcio: Bela Guttmann (storico allenatore ungherese, ricordato soprattutto per i suoi successi con il Benfica , ndr).

Che però inserisci sempre quando puoi!

Faccio di tutto per metterlo! (ride)

Ed un altro che ti ho sentito inserire spesso e che secondo me vorresti tanto raccontare è Dragan Stojković, che hai citato raccontando di Maldini.

Esatto, nella storia di Maldini c’erano entrambi. Io all’epoca ero veramente un tifoso del Milan, ma adesso mi è passato. Quando passi dall’altra del mondo sportivo le cose cambiano, ma all’epoca mi ricordo quel secondo turno dell’allora Coppa dei Campioni contro la Stella Rossa: fu agonico, ho sofferto tantissimo. Questo qua (Stojković) faceva quello che voleva, era imprendibile, metteva in difficoltà un sistema apparentemente perfetto come era quello del Milan. Bela Guttmann invece, perché non c’è nessun uomo che abbia attraversato un intero secolo della storia del calcio così profondamente e che abbia inciso così tanto, ed è come Keyser Söze (Kevin Spacey protagonista ne “I soliti sospetti”, ndr): lui è veramente il protagonista del mutamento, c’è sempre lui in diversi ambiti, è secondo me il più grande allenatore del ventesimo secolo.

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