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Lo slogan funziona ancora nell’advertising digitale?

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Slogan, tagline, payoff, headline sono elementi che, dalla sua nascita, sono sempre stati considerati centrali nella comunicazione pubblicitaria. A metterli (ma solo parzialmente) in ombra negli ultimi anni sembra essere stata una predominanza degli elementi più grafici e visivi. Ma questo significa che lo slogan è effettivamente meno efficace nell’advertising digitale?

Slogan e velocità di fruizione dei contenuti digitali

Nel mondo digital, in realtà, sono tanti i fattori che possono aumentare esponenzialmente l’efficacia di uno slogan, una frase sintetica, ma esaustiva, breve, ma catchy. Basti pensare alle nostre stesse modalità di fruizione di contenuti (pubblicitari e non) digitali. Prima su tutte la velocità: quella con cui, noi in primis, ma anche la gran parte degli utenti, diamo un’occhiata a siti, pagine web o app, sia da mobile, sia da desktop. Per chi fa advertising sulle principali piattaforme, che di contenuti sono invase, questo si traduce in una competition altissima: se gli utenti non capiscono chi sei e cosa fai leggendo le poche parole che rientrano nella sopracitata “occhiata”, chiuderanno la pagina, usciranno dall’app, scorreranno la storia successiva, scorreranno la search page rapidamente per trovare un altro risultato più attinente alle loro aspettative.

Slogan, sì, ma che fanno pensare

È per questa ragione, ad esempio, che Steve Krug, esperto di user experience che, già nel 2000 con il suo Don’t Make Me Think, approfondiva i temi della usability nel web, suggeriva – anche nel digitale – di creare uno slogan molto visibile, che consentisse all’utente di capire immediatamente chi sei e cosa fai, senza costringerlo a “pensare”, o a dover arrivare fino alla fine della landing page per conoscerti.

È Jim Morris, con una ventennale carriera di copywriter in agenzie statunitensi tra cui DDB Worldwide e FBC e docente di copywriting al Columbia College, in dialogo con Roger Dooley, uno dei maggiori esperti internazionali di neuroscienze applicate al marketing, a sottolineare che oggi non far pensare l’utente non può più funzionare. Se uno slogan non fa pensare è molto probabile che non verrà notato, né elaborato. Uno slogan che non fa pensare diventa invisibile, spiega l’esperto, perché non crea un’ancora mentale per il cervello. E per evitare che questo accada, è necessario che, anche solo per un nanosecondo, il cervello dell’utente si soffermi. Meglio se su qualcosa che sia non solo sorprendente, ma anche intelligente, perché debba necessariamente compiere l’azione di comprendere, di processare il contenuto dello slogan.

Slogan che dicono (quasi) tutto

Tuttavia, continuano gli esperti, soprattutto nel digital, è ora di abbandonare (al contrario di quanto fanno molti) la pretesa di far dire tutto allo slogan: ci sono aziende che hanno così tanto di cui essere orgogliose che vorrebbero esprimere tutto. Ma l’utente, va ricordato, non vuole sapere tutto. L’utente vuole sapere quello che sta cercando, anche inconsciamente, in quel momento, ciò che gli serve: sarà lui a decidere se approfondire e scoprire di più. È forse questa una delle ragioni che, nel tempo, possono aver fatto pensare che lo slogan, nel digital, non funzionasse. Accade persino quando le campagne che non generano nuovi clienti sono quelle delle grandi corporation, sostenute da budget milionari, durante il Super Bowl, continua l’analisi.

I fattori neuroscientifici che impattano sull’efficacia delle campagne (anche milionarie)

Il perché molte campagne non funzionano non è, naturalmente, unico. Eppure è possibile, secondo i due esperti di neuromarketing, individuare alcuni fattori di origine neuroscientifica che possono determinare il successo o l’insuccesso di uno slogan e di un’intera campagna. Tra questi, in primis, la paura. Osare con un messaggio che può essere percepito come “rischioso” è difficile. In questo senso la paura può spingere a non voler fare qualcosa di diverso. È un errore che molte agenzie che propongono gli slogan commettono, ma che fanno anche i manager delle aziende nel valutare i messaggi. E lo fanno persino i clienti, che a volte tendono a trovare congeniale un messaggio, se ne hanno già visto uno simile. È il potere di ciò che è rassicurante.

Contro una mentalità HIPPO nel decision making

Roger Dooley li definisce errori dovuti ad una mentalità “HIPPO”, acronimo che sta per highest paid person in the organization (la persona più pagata in azienda, ndr). Si tratta della dinamica per cui, quando c’è qualcosa da decidere (una campagna, uno slogan, una landing page), il criterio decisivo è nient’altro che “quello che pensa il grande capo”. E questo avviene, di frequente, anche quando “la persona più pagata in azienda” non ha tempo e modo di esaminare dati e ricerche di mercato, di stare in trincea a capire cosa funziona e cosa no. Anche quando non è il “grande capo” la persona più vicina e con la comprensione maggiore del pubblico target. Risultato? La scelta si basa, alla fine, su un’ipotesi più soggettiva che fondata sui dati, con il rischio che il messaggio scelto risuoni sì, per il capo, ma non con il cliente tipo, compromettendo l’efficacia dello slogan.

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