Quello che l’algoritmo non dice: il neuromarketing nell’era dell’AI

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Metaverso e intelligenze artificiali

Metaverso, web 3.0, Chat Gpt: sono tante le innovazioni e le declinazioni di intelligenze artificiali che, giorno dopo giorno, stanno diventando sempre più accessibili. Come ricordava David Rogers, Docente di Digital Business Strategy alla Columbia Business School, a proposito di Digital Transformation solo pochissimi mesi fa sul palco del Marketing Forum, non è più una questione di se, ma di quanto velocemente questi cambiamenti prenderanno piede e trasformeranno, in maniera estensiva, la realtà.

David Rogers @ Marketing Forum 2022

Il recentissimo il rapporto di McKinsey sostiene che, già entro il 2030, il Metaverso – nelle sue numerose potenziali applicazioni – potrebbe già raggiungere un valore di 5mila miliardi di dollari.

Reale e digitale sono un continuum

La verità è che non serve spingersi così oltre per apprezzare la velocità e l’ampiezza dei cambiamenti che oggi ci interessa come individui, come consumatori e, soprattutto come utenti, di una realtà che ormai per larga parte è fatta di digitale e online.

Secondo l’annuale report The Global State of Digital 2022, sviluppato da Hootsuite, uno dei principali software di gestione social a livello globale, insieme a We are social, sono 5,3 miliardi le persone attive online, su una popolazione mondiale che, proprio di recente, ha raggiunto gli 8 miliardi. Ancora sono 4,7 i miliardi di persone attive sui social in tutto il mondo, con una media di utilizzo di quasi 7 ore giornaliere, va da sé, trascorse quasi esclusivamente su dispositivi mobile (92,15%). Solo in Italia, su una popolazione di 60,32 milioni di persone, gli utenti attivi online sono 50,85 milioni, e gli utilizzatori abituali di social media 43,20 milioni.
L’americano adulto medio passa una media di 10 ore e mezza di fronte a uno schermo ogni giorno, il 66% del suo tempo di veglia.

Viviamo, ormai da anni, con più che un piede nel digitale, che è totalmente integrato nelle nostre abitudini: cambia quando esse cambiano e, allo stesso tempo, cambiano i nostri comportamenti quando è lui a trasformarsi.

Lost in quantification

I dati a disposizione sul nostro comportamento online, come abbiamo visto, sono tonnellate, sempre più dettagliati e in continuo aggiornamento. Sui cosiddetti big data si fondano tante delle azioni e delle decisioni da aziende e organizzazioni: campagne marketing, strategie commerciali e trasformazioni organizzative. Ma anche dietro quantità di informazioni c’è un rischio.
Parafrasando il titolo del celebre film Lost in translation di Sofia Coppola, l’esperto di branding e pioniere del neuromaketing Martin Lindstrom mette in guardia dal pericolo di finire lost in quantification.

Quello che gli algoritmi non possono dirci: il ruolo del neuromarketing

Non c’è dubbio che questo tipo di insight sia uno strumento preziosissimo, anzi indispensabile. Dati e misurazioni permettono di valutare, di stabilire KPI per orientare l’azione, valutare la risposta dei clienti, controllare la crescita. Ma non tutto è sempre misurabile, sostiene Lindstrom.

I dati in sé sono statici, vuoti, monotoni, senza senso. Per trovarne il vero significato devi interpellare un essere umano. O centinaia di esseri umani.

Perdersi, insomma, nella quantità dei big data, può anche portarci fuori strada, specie se distoglie completamente l’attenzione da qualcosa che algoritmi e sistemi di monitoring, per forza di cose, non possono dirci.

La mente è come un iceberg

L’85% del comportamento e delle decisioni umane, nel quotidiano, – spiega l’esperto di neuromarketing – è inconscio. Solo il 15% delle azioni avviene razionalmente: la mente è come un iceberg. È questo a renderci tutti particolarmente sensibili alle informazioni che ci parlano più a livello emotivo e meno a livello razionale. La razionalizzazione è una fase del processo decisionale che, nella maggior parte dei casi, avviene dopo il momento della scelta. E in questo senso saper parlare e trasmettere valore come brand a un livello che precede la razionalità crea un rapporto con persone, utenti e clienti incredibilmente più profondo.

I big data non bastano a spiegare le emozioni

Puoi cercare «amore» nel dizionario, mapparlo in un file excel, studiarne la definizione in un libro di testo. Oppure puoi avventurarti nel mondo e trovare la tua risposta.” E secondo Lindstrom, le cose non stanno molto diversamente quando si tratta di creare seguito, “amore” e loyalty per un brand.

Sempre di più si tende a fare affidamento sui big data anche per quanto riguarda la comprensione di uno dei principali asset coinvolti nelle decisioni d’acquisto: le emozioni. E se certamente i big data permettono di individuare pattern all’interno di moli di informazioni, non sono sempre lo strumento ideale per capire alcuni aspetti decisivi dei bisogni e dei desideri.

Il valore degli small data

Un esempio citato da Martin Lindstrom è il caso di un istituto bancario negli USA alle prese con l’analisi di un grosso calo di clienti. Grazie ai big data era riuscito a individuare un pattern di comportamenti che consentiva di capire e anticipare quando i clienti stavano maturando l’intenzione di chiudere o spostare il conto. Questo aveva dato loro la possibilità di intraprendere delle azioni riparatorie, di contattare i clienti prima che effettivamente se ne andassero. Eppure, mancava un pezzo del puzzle. I big data erano effettivamente in grado di registrare e predire il calo, ma non erano in grado di comprendere la vera ragione che lo provocasse. E infatti la ragione, in questo caso, non aveva niente a che fare con l’effettiva soddisfazione per il servizio, misurabile attraverso i tradizionali metodi. La percentuale dei divorzi tra i clienti era aumentata e per questo molti dovevano necessariamente chiudere il conto bancario.

Il neuromarketing nell’era del metaverso

Se le emozioni sono driver principali dei comportamenti, per averne una comprensione profonda, occorre dotarsi di strumenti che siano in grado di studiarle e rilevarle. In questo senso, il neuromarketing, che studia processi decisionali attraverso la lente delle neuroscienze e delle scienze comportamentali, è oggi una disciplina ancora più che attuale per indagare quello che i dati puri non ci dicono. Se reale e virtuale sono un continuum, proprio il neuromarketing può aiutarci a costruire un brand che soddisfi i bisogni ma che parli ai valori. E che lo faccia non ignorando tutto ciò che dimora nello strato meno superficiale.

Bilanciare causa e correlazione: small data e neuromarketing

Ciò che muove all’azione ha, come abbiamo visto, a che fare con bisogni, desideri ed emozioni. Si tratta di distinguere e bilanciare rapporto di correlazione (fornito dai big data) e quello di causa, difficilmente misurabile tradizionalmente, ma fornito dalle informazioni che Lindstrom chiama small data”.

Brand awareness in un secondo e mezzo

L’infinito flusso di contenuti online a cui siamo sottoposti è spesso “paralizzante”, spiega Lindstrom e non riguarda solo le decisioni d’acquisto online. Anche la brand awareness “fisica” è interessata da questo drastico calo dell’attenzione che clienti e persone riescono e vogliono dedicare a qualcosa. In un supermercato, suggerisce l’esperto abbiamo circa 1 secondo e mezzo, il tempo in cui un cliente alza gli occhi dal cellulare, per colpire il suo desiderio e influenzare la sua scelta.
E lì, fuori dallo schermo, dobbiamo affidarci a una awareness del nostro brand “subconscia”, risvegliare ciò che è già esistente nel cervello. E perché questa awareness si generi, dobbiamo “fare a pezzi” il brand.

Fai a pezzi il brand con il neuromarketing

Se eliminassi il logo del tuo brand dal prodotto, dal suo packaging o da tutto ciò che lo supporta, sarebbe comunque riconoscibile?
La riconoscibilità del brand passa da ogni minimo frammento, tanto più se l’attenzione che gli viene dedicata è di pochissimi istanti.
Ogni potenziale touchpoint è un momento fondamentale per stabilire il contatto con nuovi lead o per rafforzare il rapporto esistente con quelli già fidelizzati e va sfruttato al massimo. Immagini, suoni, sensazioni tattili e contenuto testuale: ogni singolo fattore concorre all’obiettivo e va integrato per costruire una brand awareness che possa agire in maniera capillare. Ecco il senso del “fare a pezzi il brand”, in modo che ciascun elemento che lo compone possa funzionare da segnale, sia in modo indipendente, sia in sinergia con gli altri “pezzi”, per comporre la riconoscibilità e la forza di un brand.

Brand awareness, dopamina, neuroni specchio e processi decisionali

Nello specifico sono 12 i frammenti in cui Lindstrom suggerisce di spezzare il brand. Li approfondiremo nei prossimi articoli, insieme ad altri strumenti di neuromarketing, basati sui processi dopaminici, sui neuroni specchio e sulla cosiddetta embodied cognition.

Martin Lindstrom

Clienti del futuro

Parleremo di clienti del futuro al Marketing Forum, il grande evento dedicato al Marketing Strategico che si terrà a Milano e in diretta streaming.

Il programma completo dell’evento è disponibile a questo link.

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